Un progetto di memoria critica per il LUS
Se ci sono state delle sperimentazioni, che cosa sperimentavano?
E se erano, appunto, sperimentazioni di una data cosa come hanno funzionato?
Sono queste due domande che mi ronzano in testa da molti anni.
Nel 1976, a metà del mio primo anno di triennio scientifico, mi guardai intorno in quella scuola del tutto particolare che era il LUS e mi sentii fuori posto, avvolta da un senso di morte e di sfacelo.
Ero troppo dentro le cose e troppo giovane nei miei sedici anni per capire che si stava compiendo la sconfitta di ben altro che la nostra sperimentazione, che a morire non era solo il sogno di una scuola migliore, più libera e democratica, che avremmo dovuto coltivare in quella scuola lì, in quella sperimentazione lì.
Sentivo solo che non potevo più restare a guardare disciogliersi tutto in una vana lotta isolata. Che non mi piaceva annotare in continuazione tutto quello che noi stessi facevamo per rendere vano il sogno, ma già allora capivo che la sconfitta non veniva da dentro, che lo scontro si era giocato altrove e io ero dalla parte dei perdenti.
È stato con questo stato d’animo che mi sono incaponita di cambiare scuola.
Avevo fatto l’asilo e le elementari alla Montessori, anche alle medie ero andata alla Montessori di Villa Ada, anzi avevo sperimentato anche lì, con gran confusione e allegria, per quanta ce ne possa essere in quell’ingrata età della scuola media. Poi il LUS.
Basta ora mi voglio misurare con il mondo reale, con la scuola tradizionale, con tutto quello che ho rifiutato in questi anni, o meglio, con tutto quello che era fuori dal mio mondo. Vedevo il mio percorso come un giro in un’sola, nemmeno poi così felice, e ora avevo bisogno di andare per mare.
Naturalmente è stata durissima.
Come prima cosa ho dovuto preparare un esame di ammissione per potermi iscrivere al liceo di quartiere, l’Azzarita di Piazzale delle Muse. Infatti non avevo fatto latino (mancava nel programma dello scientifico sperimentale) e quindi dovevo dimostrare di sapere il tanto necessario all’ammissione al quarto anno. Ho studiato, e ho sempre pensato che all’esame mi hanno promosso più per bontà d’animo che per la mia reale preparazione. Infatti col latino ho continuato a fare a pugni, mantenendomi sulla media del due allo scritto, venendo rimandata a settembre.
Ma non è stato questo l’aspetto più duro della faccenda. Il peggio erano i professori che non ammettevano di essere guardati dalla stessa altezza, che chiedevano un rispetto di facciata ma non erano interessati a quello di sostanza. Il peggio erano i compiti in classe e le interrogazioni che non servivano a testare cosa avevi capito e come era stato spiegato, ma servivano a sé stessi e niente più. Il peggio erano i rapporti tra compagni che compagni non erano, gli scherni e le rivalità sul nulla, le gelosie di voti reputati immeritati.
È stata durissima.
Già a metà del quarto ero pronta a darmela a gambe. Subissata di ripetizioni in tutte le materie, isolata nella classe e incapace di riconoscere il potere costituito dei professori, ero pronta a mollare. Per la verità i professori non si sono comportati male con me, cercavano credo di capirmi, di rendermi possibile la promozione, alcuni furono in grado anche di mettere in luce certe mie capacità. Ma era quella distanza che esisteva tra noi e loro che non riuscivo a tollerare.
Mi misi a cercare lavoro. Ma era il 1977, la disoccupazione era alle stelle. Volevo andarmene da Roma e cercavo lavoro a Livorno e in Toscana in generale. Ma la città e il porto stavano vivendo una crisi senza ritorno. Non trovavo nemmeno un posto a servizio. Le donne che nella crisi degli anni precedenti erano state estromesse dalle fabbriche del settore tessile avevano messo le maglierie in casa ma anche quel lavoro era ora in crisi e cercavano anche loro un posto a servizio. E poi credo che chi mi doveva aiutare non lo facesse perché pensava che facessi male a lasciare la scuola.
In quella intervenne mia madre che mi propose un patto. Mi avrebbe trovato un lavoro se io avessi finito la scuola e preso la maturità.
E così è stato. Ho stretto i denti, ho fatto latino a settembre promossa per il rotto della cuffia, mi sono imbottita di altre ripetizioni in tutto tranne storia e italiano dove andavo bene di per mio, e sono arrivata in fondo. Mi sono diplomata persino con il voto più alto della commissione. Sono convinta che questo risultato fosse dovuto anche al fatto che all’esame chiedevano qualcosa anche di un po’ diverso da quello che chiedevano tutto l’anno, un minimo di senso critico, qualche capacità di collegare le cose tra loro, o almeno così è parso a me.
Sono uscita dal liceo con il disgusto per lo studio, con la promessa a me stessa che tutta quell’ansia e quella sofferenza non le avrei riprovate, che non valevano la pena. E mai mi sono pentita di questo, anche se forse non mi sarei pentita nemmeno se avessi infranto il giuramento e mi fossi rimessa a studiare, chissà.
Insomma, per tornare a noi, poi ho visto, da lontano, che le scuole continuavano a fare le sperimentazioni. La nostra l’avevano chiusa col ferro e col fuoco, ma altre no, erano rimaste; e altre ancora avevano aperto in seguito. In un certo senso è stato un proliferare di sperimentazioni. Mia figlia è arrivata alla media proprio quando la Gelmini ha voluto chiuderle tutte le sperimentazioni in atto, e la scuola che ha frequentato ancora oggi continua ogni anno a fare ricorso e a vincerlo per continuare ad avere i fondi della sperimentazione.
Ma io mi chiedo, qualcuno ha mai tirato un bilancio? Anche al ministero, dico, anche tra i nemici della sperimentazione, al di là delle accuse e degli sberleffi, hanno fatto degli studi? Le hanno comparate? Hanno confrontato i risultati con altri sistemi scolastici?
Ma anche noi, ci siamo interrogati? Abbiamo tirato le somme? Lasciamo una memoria critica di quell’esperienza?
E dire che quell’esperienza è stata una cacca di mosca nel panorama mondiale non è sufficiente per non farlo. E dire che è stato solo un breve momento del tutto legato a quegli anni, anche non basta, io credo. Anche liquidare il vissuto personale con l’idea che equivalga a qualsiasi vissuto di un gruppo di adolescenti alle prese con l’età e la scuola, non basta.
Io penso che abbiamo il compito di lasciarla questa memoria critica, di raccogliere senso e dissenso, memoria e dismemoria, documenti, foto, canzoni, sogni e disegni, di quell’esperienza e lasciarli in un cassetto aperto, dove chi vorrà potrà andare a ficcare il naso e magari saprà tirare qualcuna delle fila che ancora non sono state tirate.
È con questo spirito che avevo accolto con entusiasmo l’idea che Filippo Ottone mi raccontò a una manifestazione (ci incontravamo spesso alle manifestazioni ed era sempre una festa) e venni la prima volta e ancora la seconda, all’incontro che ci riunisce ancora una volta il 19 aprile. Ma poi per una ragione o per l’altra non è stato messo insieme molto; quello che c’è è sul sito che Pasquale ha sapientemente approntato a questo scopo, ma non è molto, davvero. E allora ho voluto riprendere il progetto e dargli nuovo slancio, sperando che questa volta le cose si accumulino una sull’altra, alla rinfusa o ordinate, non importa, memorie, foto, sogni, documenti, progetti, pensieri, insulti, qualsiasi cosa va bene purché sia raccolta e messa nel cassetto.
A futura memoria.
Fiammetta, o Fiamma (tanto sempre io sono)
11.4.2015
E se erano, appunto, sperimentazioni di una data cosa come hanno funzionato?
Sono queste due domande che mi ronzano in testa da molti anni.
Nel 1976, a metà del mio primo anno di triennio scientifico, mi guardai intorno in quella scuola del tutto particolare che era il LUS e mi sentii fuori posto, avvolta da un senso di morte e di sfacelo.
Ero troppo dentro le cose e troppo giovane nei miei sedici anni per capire che si stava compiendo la sconfitta di ben altro che la nostra sperimentazione, che a morire non era solo il sogno di una scuola migliore, più libera e democratica, che avremmo dovuto coltivare in quella scuola lì, in quella sperimentazione lì.
Sentivo solo che non potevo più restare a guardare disciogliersi tutto in una vana lotta isolata. Che non mi piaceva annotare in continuazione tutto quello che noi stessi facevamo per rendere vano il sogno, ma già allora capivo che la sconfitta non veniva da dentro, che lo scontro si era giocato altrove e io ero dalla parte dei perdenti.
È stato con questo stato d’animo che mi sono incaponita di cambiare scuola.
Avevo fatto l’asilo e le elementari alla Montessori, anche alle medie ero andata alla Montessori di Villa Ada, anzi avevo sperimentato anche lì, con gran confusione e allegria, per quanta ce ne possa essere in quell’ingrata età della scuola media. Poi il LUS.
Basta ora mi voglio misurare con il mondo reale, con la scuola tradizionale, con tutto quello che ho rifiutato in questi anni, o meglio, con tutto quello che era fuori dal mio mondo. Vedevo il mio percorso come un giro in un’sola, nemmeno poi così felice, e ora avevo bisogno di andare per mare.
Naturalmente è stata durissima.
Come prima cosa ho dovuto preparare un esame di ammissione per potermi iscrivere al liceo di quartiere, l’Azzarita di Piazzale delle Muse. Infatti non avevo fatto latino (mancava nel programma dello scientifico sperimentale) e quindi dovevo dimostrare di sapere il tanto necessario all’ammissione al quarto anno. Ho studiato, e ho sempre pensato che all’esame mi hanno promosso più per bontà d’animo che per la mia reale preparazione. Infatti col latino ho continuato a fare a pugni, mantenendomi sulla media del due allo scritto, venendo rimandata a settembre.
Ma non è stato questo l’aspetto più duro della faccenda. Il peggio erano i professori che non ammettevano di essere guardati dalla stessa altezza, che chiedevano un rispetto di facciata ma non erano interessati a quello di sostanza. Il peggio erano i compiti in classe e le interrogazioni che non servivano a testare cosa avevi capito e come era stato spiegato, ma servivano a sé stessi e niente più. Il peggio erano i rapporti tra compagni che compagni non erano, gli scherni e le rivalità sul nulla, le gelosie di voti reputati immeritati.
È stata durissima.
Già a metà del quarto ero pronta a darmela a gambe. Subissata di ripetizioni in tutte le materie, isolata nella classe e incapace di riconoscere il potere costituito dei professori, ero pronta a mollare. Per la verità i professori non si sono comportati male con me, cercavano credo di capirmi, di rendermi possibile la promozione, alcuni furono in grado anche di mettere in luce certe mie capacità. Ma era quella distanza che esisteva tra noi e loro che non riuscivo a tollerare.
Mi misi a cercare lavoro. Ma era il 1977, la disoccupazione era alle stelle. Volevo andarmene da Roma e cercavo lavoro a Livorno e in Toscana in generale. Ma la città e il porto stavano vivendo una crisi senza ritorno. Non trovavo nemmeno un posto a servizio. Le donne che nella crisi degli anni precedenti erano state estromesse dalle fabbriche del settore tessile avevano messo le maglierie in casa ma anche quel lavoro era ora in crisi e cercavano anche loro un posto a servizio. E poi credo che chi mi doveva aiutare non lo facesse perché pensava che facessi male a lasciare la scuola.
In quella intervenne mia madre che mi propose un patto. Mi avrebbe trovato un lavoro se io avessi finito la scuola e preso la maturità.
E così è stato. Ho stretto i denti, ho fatto latino a settembre promossa per il rotto della cuffia, mi sono imbottita di altre ripetizioni in tutto tranne storia e italiano dove andavo bene di per mio, e sono arrivata in fondo. Mi sono diplomata persino con il voto più alto della commissione. Sono convinta che questo risultato fosse dovuto anche al fatto che all’esame chiedevano qualcosa anche di un po’ diverso da quello che chiedevano tutto l’anno, un minimo di senso critico, qualche capacità di collegare le cose tra loro, o almeno così è parso a me.
Sono uscita dal liceo con il disgusto per lo studio, con la promessa a me stessa che tutta quell’ansia e quella sofferenza non le avrei riprovate, che non valevano la pena. E mai mi sono pentita di questo, anche se forse non mi sarei pentita nemmeno se avessi infranto il giuramento e mi fossi rimessa a studiare, chissà.
Insomma, per tornare a noi, poi ho visto, da lontano, che le scuole continuavano a fare le sperimentazioni. La nostra l’avevano chiusa col ferro e col fuoco, ma altre no, erano rimaste; e altre ancora avevano aperto in seguito. In un certo senso è stato un proliferare di sperimentazioni. Mia figlia è arrivata alla media proprio quando la Gelmini ha voluto chiuderle tutte le sperimentazioni in atto, e la scuola che ha frequentato ancora oggi continua ogni anno a fare ricorso e a vincerlo per continuare ad avere i fondi della sperimentazione.
Ma io mi chiedo, qualcuno ha mai tirato un bilancio? Anche al ministero, dico, anche tra i nemici della sperimentazione, al di là delle accuse e degli sberleffi, hanno fatto degli studi? Le hanno comparate? Hanno confrontato i risultati con altri sistemi scolastici?
Ma anche noi, ci siamo interrogati? Abbiamo tirato le somme? Lasciamo una memoria critica di quell’esperienza?
E dire che quell’esperienza è stata una cacca di mosca nel panorama mondiale non è sufficiente per non farlo. E dire che è stato solo un breve momento del tutto legato a quegli anni, anche non basta, io credo. Anche liquidare il vissuto personale con l’idea che equivalga a qualsiasi vissuto di un gruppo di adolescenti alle prese con l’età e la scuola, non basta.
Io penso che abbiamo il compito di lasciarla questa memoria critica, di raccogliere senso e dissenso, memoria e dismemoria, documenti, foto, canzoni, sogni e disegni, di quell’esperienza e lasciarli in un cassetto aperto, dove chi vorrà potrà andare a ficcare il naso e magari saprà tirare qualcuna delle fila che ancora non sono state tirate.
È con questo spirito che avevo accolto con entusiasmo l’idea che Filippo Ottone mi raccontò a una manifestazione (ci incontravamo spesso alle manifestazioni ed era sempre una festa) e venni la prima volta e ancora la seconda, all’incontro che ci riunisce ancora una volta il 19 aprile. Ma poi per una ragione o per l’altra non è stato messo insieme molto; quello che c’è è sul sito che Pasquale ha sapientemente approntato a questo scopo, ma non è molto, davvero. E allora ho voluto riprendere il progetto e dargli nuovo slancio, sperando che questa volta le cose si accumulino una sull’altra, alla rinfusa o ordinate, non importa, memorie, foto, sogni, documenti, progetti, pensieri, insulti, qualsiasi cosa va bene purché sia raccolta e messa nel cassetto.
A futura memoria.
Fiammetta, o Fiamma (tanto sempre io sono)
11.4.2015