Un'esperienza da ricordare
di Giulio Savelli
Non saprei dire se la definizione di “scuola libertaria” possa applicarsi senz'altro al Liceo Unitario Sperimentale. Di fatto una scuola libertaria lo è stata, ma non si è mai definita esplicitamente tale, e probabilmente neppure ha inteso esserlo. Al principio intendeva essere un esperimento didattico innovativo, poi anche, e forse soprattutto, un soggetto politico – simile a un soviet – parte attiva di una lotta più ampia. A posteriori, però, mi pare che la libertà quasi assoluta di cui ha goduto chi è stato studente di quella scuola strana sopravanzi di gran lunga ogni altro aspetto. Una libertà così singolare e inaccettabile – allora e oggi - da essere forse un caso di eterogenesi dei fini. La libertà, in ogni caso, è stata il motivo per cui ho amato il Liceo Unitario Sperimentale.
Non tutti hanno amato quella libertà, e lo ricordano in altri termini. Per esempio, Francesca Archibugi, che l’ha frequentato (così come i suoi fratelli) lo definisce con queste parole: «una scuola incasinata che all’epoca si disse che fu creata per un desiderio di Eleonora Moro, la moglie del presidente Dc molto in linea con le teorie sull’insegnamento libero e non convenzionale di Maria Montessori». E continua ricordando: «Riccardo Barenghi, che è stato direttore del “manifesto” e ora scrive sulla “Stampa”, ha tracciato una mappa dei reduci dal Lus: oltre a Giovanni Moro, figlio di Aldo, c’erano Valerio Magrelli, Fabio Ferzetti, Benedetta Loy, allora eravamo un gruppo di ragazzotti, aspiranti intellettuali, figli di un’utopia poi chiusa in fretta e furia. Adesso, per mia figlia, ho scelto il Visconti, il liceo più classico e tradizionale possibile». [1]
Una scuola incasinata lo Sperimentale, senz’altro. Nata all’inizio degli anni Settanta era piena di ragazzini (io li ricordo ragazzini, non ragazzotti) usciti dalle medie Montessori. La preside, la professoressa Pecchia, guida carismatica dello Sperimentale nei suoi primi anni, era una cattolica di sinistra vicina alla presidente dell’Ente Montessori, Eleonora Moro. I montessoriani – come li chiamavamo noi originari di altre scuole – facevano gruppo chiuso. E provenivano da un ambiente relativamente omogeneo, piuttosto elitario sia per cultura sia per reddito sia per collocazione politica. La leggenda vuole che per loro e solo per loro fosse nata quella scuola - che sarebbe però presto diventata qualcosa d’altro, molto più complesso e appunto incasinato. Certo lo Sperimentale non è stato un modello performante, per così dire, sotto il profilo dell’apprendimento standard e pensarlo accanto ai test Invalsi è se non altro straniante. Ma è stato, per me e forse per qualcun altro, la salvezza.
Io non sopportavo la scuola tradizionale. Le medie che avevo frequentato erano quelle di una sezione perbene (con alta percentuale di predestinati liceali, cioè) di un quartiere perbene di Roma, negli anni Sessanta. Il programma di storia finiva con la Prima Guerra Mondiale – per evitare di toccare il fascismo, argomento troppo divisivo. L’educazione era formale - una professoressa, addirittura, ci dava del lei. Si studiava sodo, si bocciava il giusto. In terza media avevo osato dichiarare che una poesia che ci era stata data – di Aleardo Aleardi – non mi era piaciuta, e ne era nato un grande scandalo, che si era riverberato per un pezzo nei commenti allibiti di tutti gli insegnanti che varcavano la soglia dell’aula. Io non accettavo la scuola, che mi procurava un dolore indicibile. Non tolleravo di dover fare ciò che mi veniva ordinato, non sopportavo di essere misurato con un numero, non capivo il senso di ciò che mi veniva insegnato, e mi impuntavo come un mulo. Andavo avanti come quei cani che tenuti per il guinzaglio vengono trascinati dal padrone e rischiano di strozzarsi, ma non cedono. Ero stato congedato dalle medie con “buono”, ma era evidente che il mio destino scolastico di buono mi avrebbe riservato ben poco.
Era l’estate del 1972 quando i miei vennero a sapere dell’esistenza di quella scuola così particolare, con metodi d’insegnamento più liberi, sperimentali. Avevano pietà per le mie sofferenze e decisero di rischiare. L’iscrizione non fu uno scherzo. La fama del Liceo Sperimentale, a due anni dalla sua nascita, si era diffusa per Roma, e le richieste d’iscrizione superavano di gran lunga i posti disponibili. Ci fu un genitore che, tre giorni prima dell’apertura delle iscrizioni, decise che ritornare il giorno successivo sarebbe stato troppo rischioso, e decise di fermarsi lì. Davanti alla scuola. La voce si sparse velocemente e in poche ore si formò una fila sul marciapiede di via Livenza, prima sede del liceo. I genitori rimasero per strada tre giorni e tre notti, accampati, con coperte e brandine. Dal Liceo Sperimentale ci si aspettava molto, e molti sacrifici si potevano fare per lui. Questa fila – mai atto burocratico fu più intriso d’amore – è stato l’atto mitologico di nascita del vero Sperimentale e l’inizio di una dépense allora inimmaginabile.
Una buona descrizione del Liceo Sperimentale (LUSS, come recitava la targa appesa accanto al portone della scuola: Liceo Unitario Statale Sperimentale) è quella data dal professor Turchi (mi sembra di ricordare che nel nostro liceo insegnasse scienze) sul sito Treccani.it.[1] Il punto fondamentale è che, differenza da tutte le altre sperimentazioni realizzate in alcune sezioni di alcune scuole negli anni Settanta, sperimentazioni che toccavano appena la didattica e in parte l’offerta formativa, nel Liceo Sperimentale la sperimentazione si concretizzava nella completa autogestione. Ogni aspetto, didattico, organizzativo, disciplinare, era stabilito dall’Assemblea Generale, che riuniva le tre componenti della scuola: insegnanti, studenti, genitori. E poiché il criterio di suffragio era “un uomo, un voto” il peso della componente studentesca era tale da poter essere compensato solo dall’”alleanza” di insegnanti e genitori. Di fatto la gestione era comune sotto ogni punto di vista.
Le materie curricolari, insegnate la mattina, erano più o meno quelle consuete nei licei; il primo biennio era comune a tutti, nel triennio si poteva scegliere fra due indirizzi, classico e scientifico. La didattica era organizzata principalmente intorno al lavoro di gruppo, da svolgersi in classe, senza libri di testo che tracciassero la rotta. C’era però a disposizione una biblioteca d’istituto eccezionale, a scaffale aperto, ricchissima, gestita col contributo volontario e gratuito di genitori-bibliotecari (ricordo la signora Mayer, la signora Pannilini accanto alla stufetta elettrica). L’interdisciplinarietà era la bandiera di ogni materia d’insegnamento, che si incontrava e si intrecciava – talvolta pretestuosamente - con altre affini. La storia contemporanea era privilegiata e i programmi partivano sempre dall’oggi per risalire al passato; anche nell’insegnamento delle materie scientifiche la dimensione storica era tenuta presente. I banchi era disposti (come da consuetudini montessoriane) a ferro di cavallo; si usavano quadernoni ad anello in modo da spostare blocchi di appunti da un settore o da un quaderno all’altro secondo le esigenze. Le classi erano nel biennio di una quindicina di alunni, nel mio triennio eravamo in nove. Soprattutto, non c’erano voti, ma una valutazione discorsiva di fine anno, che consisteva più un feedback che in un giudizio. Non c’erano compiti in classe e neppure a casa; si rimaneva infatti a scuola fino a metà pomeriggio, ma non per esercitarsi nelle materie della mattina bensì per seguire infiniti corsi “extra-curricolari” liberamente scelti da ciascuno che mescolavano gli allievi di sezioni ed età differenti. Non c’erano bocciature.
In un simile contesto scolastico, per quanto riguardava me, ero in salvo. Niente angoscia, quindi nessuna necessità di oppormi. In questo senso il Liceo Sperimentale è stata la mia liberazione e salvezza.
Sono del tutto evidenti i due punti deboli di una simile scuola: l’assenza di spazi per l’esercizio individuale, specie per quello più ripetitivo e noioso che quasi ogni studente evita volentieri, e l’assenza di strumenti di motivazione coercitiva, cioè brutti voti e minacce di bocciatura. La deriva verso il paese dei balocchi probabilmente era congenita nella struttura stessa della scuola, così come era stata concepita, ma avrebbe potuto essere in parte arginata se lo spirito montessoriano delle origini – un’attitudine di serio lavoro in cui vigeva un’autodisciplina scaturita dalla partecipazione attiva all’interno di un piccolo gruppo omogeneo e fortemente motivato – avesse potuto resistere allo spirito dei tempi. Che però non andava verso i Boy Scout ma verso la Rivoluzione.
Il boom delle iscrizioni dell’anno scolastico 1972-73 si tradusse, l’anno successivo, grazie alla piena autogestione, in uno spostamento del baricentro politico della scuola verso sinistra. Il favore che fino ad allora il Ministero aveva accordato alla sperimentazione scomparve improvvisamente. La componente cattolica e montessoriana, ormai ben poco rilevante, si dissolse con il trasferimento d’ufficio ad altro incarico della preside Pecchia e di alcuni insegnanti. Nell’aprile 1974 la palazzina di via Panzini, che era stata assegnata alla scuola nel 1972, venne dichiarata inagibile dai Vigili del Fuoco. Si profilava, di fatto, la fine dell’esperimento e lo scioglimento dell’istituto. A questa prospettiva l’Assemblea Generale reagì con la decisione di occupare (in accordo con la Circoscrizione) un edificio abbandonato su via della Bufalotta, oltre il Grande Raccordo Anulare, in mezzo alla campagna: l’ex-IRASPS.
L’occupazione e la successiva risistemazione del fatiscente edificio fu il secondo momento mitico fondativo nella storia dello Sperimentale. Un momento che può essere ricordato in modi differenti: come un gesto di lotta politica, come un avventuroso romantico slancio di tutta una comunità, come un rilancio esaltato, utopico e isolazionista. Parteciparono tutti, studenti, genitori, insegnanti, venne fatta una colletta e fu un gran lavoro di mani e di braccia. Alla fine c’erano i vetri alle finestre, le pareti ripulite e decorate di murales, una bandiera rossa sul tetto. Le istituzioni, da parte loro, piegate infine dalla lotta, collaborarono con la fornitura di un congruo numero di vecchie stufe a legna di ghisa.
Venne affrontato il problema di ciò che altrove era considerato disciplina, e che allo Sperimentale era anzitutto una questione di democrazia. Lungamente discusso e dibattuto, osteggiato dalle componenti più radicali, sostenuto dai moderati, cioè dall’area che si riconosceva nel PCI, venne infine approvato nel giugno 1974 un Regolamento.. La nostra Costituzione, per così dire, prevedeva dei limiti all’attività politica nella scuola, limiti assai ampi ma pur sempre limiti, e delle sanzioni nel caso di assenze massicce dalle lezioni. La bocciatura era possibile solo nel caso di assenze superiori al 35% in almeno 4 materie. L’attenzione del legislatore si concentrava cioè sui due maggiori ostacoli all’attività didattica: le assemblee quotidiane e le assenze. Erano inoltre considerati alcuni dettagli: i ritardi, le giustificazioni, il divieto di fumo in classe.
Ci furono notevoli sforzi per rispettare e far rispettare il Regolamento, ma non si può dire siano stati coronati da successi decisivi. Il Regolamento è in realtà la radiografia da cui si evince la realtà quotidiana dello Sperimentale: ciò che lì viene proibito è esattamente ciò che caratterizzava l’andamento normale della scuola. L’attività politica occupava tutto lo spazio che riteneva opportuno occupare, i ritardi erano normali, e comunque la prima mezz’ora, d’inverno, andava via per accendere la stufa e la seconda mezz’ora per discutere se si potesse fumare con la finestra socchiusa o invece aperta o davvero non si potesse fumare affatto – magari uno alla volta…? Tutto poteva, tutto doveva essere discusso e votato, per essere poi discusso di nuovo. Decideva certo l’Assemblea Generale, in linea di principio, ma decideva soprattutto la classe. Questo discutere incessante, sistematico, ossessivo, è stato una palestra dialettica e politica straordinaria, ed era un’attività formativa alla pari o forse più importante, per molti di noi, dello studio. Ma era anche un’attività inane e stravagante, fine a se stessa come un gioco. Una sola volta, che io sappia, si è dato il caso di uno studente che si è trovato a fine d’anno con più del 60% di assenze in tutte le materie. Il caso è stato dibattuto proprio nella mia classe. Il Regolamento prevedeva la bocciatura, ma diceva anche che se le assenze erano dovute a “cause di forza maggiore” si poteva soprassedere. La discussione fu surreale, le assenze erano dovute a cause incerte e praticamente indefinibili. Arrivati al voto, furono per la bocciatura tutti gli insegnanti, i due rappresentanti dei genitori e due degli studenti (io e il mio migliore amico, Lorenzo Ascoli). Gli altri miei compagni di classe però votarono tutti contro, per solidarietà e per principio: e quel ragazzo, di cui nessuno di noi ricordava bene il viso, che nessuno aveva mai conosciuto né frequentato, venne promosso.
Nell’allegra e appassionata baraonda del nostro liceo, però, non è affatto vero che non si studiasse. Semplicemente, lo studio era una scelta personale e si concretizzava attraverso un preciso atto di volontà. Pochi studiavano tutto, alcuni solo alcune materie. Ma oltre a quelle curricolari della mattina c’erano le attività pomeridiane, ed era impossibile che qualcuno non amasse almeno qualcosa. Teatro e musica avevano insegnanti straordinari (Wilda Ciurlo e Meri Franco Lao), c’era fotografia, psicologia, architettura, sociologia, economia, pedagogia, ceramica, storia delle religioni, e chissà quante altre materie che ora non ricordo, c’era un cineclub dove ho visto tutto Buñuel e tutto Bergman. Spesso venivano ospiti esterni a tenere incontri o seminari (ricordo per esempio una straordinaria analisi dello stile musicale di Beethoven proposta non so più da chi) o semplicemente a parlare della loro esperienza (ricordo Ferruccio Parri, ricordo Cancrini). Quella che in burocratese si chiama oggi “offerta formativa” era una foresta tropicale lussureggiante di proposte, inviti, suggerimenti e adescamenti, possibilità illimitate promettenti tutto lo scibile umano, una specie di paradiso terrestre del sapere, dove potevamo annoiarci a volontà allungando una mano distrattamente per prendere il frutto più vicino e maturo. Gli insegnanti cercavano di fare lezioni tradizionali, rese molto frammentarie dalle condizioni di gestione complessive, ma erano a disposizione dei singoli. A disposizione nel senso più pieno: per esempio, l’ultimo anno mi sono appassionato di filosofia, e con la mia prof ho passato molti giorni in biblioteca fuori dell’orario scolastico a leggere la Critica della Ragion Pratica, commentata da lei per me, passo per passo, interamente. E così poteva essere, volendo, per ogni materia, per ogni cosa.
Quando il tempo era buono spesso si stava all’aperto. La sede di via della Bufalotta era stata una colonia agricola, c’era un ampio uliveto alle spalle dell’edificio e lì si rimaneva spesso sdraiati sull’erba. Ricordo un “corso sull’erba” su Thomas Mann, tenuto da Carlo Illuminati, bellissimo. Ogni tanto arrivavano delle mucche, e talvolta si mettevano a correre causando un fuggi fuggi collettivo. Oltre alle mucche c’erano gli amatissimi cani randagi adottati dalla scuola (fra cui l’indimenticabile Iskra), che d’estate disturbavano le greggi che passavano da quelle parti (ho ancora in mente l’immagine di un pastore, in cioce, arrabbiatissimo in attesa di fronte alla porta chiusa della presidenza) e d’inverno, con la pioggia, venivano ad asciugarsi all’interno (l’unica proibizione davvero rispettata nella scuola era il divieto per i cani di scrollarsi in biblioteca). Era di fatto possibile entrare e uscire dalla classe e dalla scuola liberamente - in realtà bastava rispettare le comuni regole d’educazione, che vogliono che quando uno si allontana da un gruppo accenni al motivo e saluti. Le giustificazioni, obbligatorie, erano un mero ornamento burocratico a una realtà di rapporti fondata sulla conoscenza reciproca, che implicava il rispetto per la libertà di ciascuno, compresa quella di sbagliare deliberatamente. Tutto l’anno qui e là e sotto il portico, a ogni ora, si potevano trovare coppie che si baciavano.
Ora, tutto questo sembra assurdo eppure era scuola, nel senso più ampio possibile. Per alcuni, come me, è stato anche studio. Sbagliando - posso ben dirlo, a posteriori - ho studiato solo le materie umanistiche, non frequentando neppure un’ora di scienze naturali, di fisica e di matematica per tre anni (meno delle quattro materie che secondo il Regolamento avrebbero potuto condurre a bocciatura), ma quello che ho studiato l’ho studiato intensamente e appassionatamente. Qualcosa di ciò che richiede esercizio l’ho imparato, lì a scuola, da autodidatta (per esempio a scrivere) e altro non l’ho imparato - troppo scarso, per esempio, è stato il lavoro su latino e greco per consolidare quanto fatto in classe. Così, moltissimo di ciò che avrei dovuto assimilare al liceo l’ho appreso più tardi, durante l’università e dopo, rimpiangendo via via di non averlo studiato allora. Certamente però in una scuola tradizionale sarei rimasto bloccato dall’angoscia e dalla ribellione e non avrei combinato nulla.
Per molti altri miei compagni invece il Liceo Sperimentale non è stato altrettanto positivo. Il tempo perso, gli spazi illimitati di distrazione, la dispersione in troppe materie, la mancanza di quegli esercizi che permettono alla fine di possedere una pratica intellettuale, lo spazio grandissimo preso dall’attività politica, l’impegno richiesto dalla gestione assembleare di ogni singolo atto, ma soprattutto l’assenza di qualunque forma di disciplina che non fosse autodisciplina, non hanno permesso ad alcuni di imparare ciò che avrebbero potuto e voluto imparare; per altri non è stato possibile neppure intuire che c’era qualcosa di interessante da imparare. Troppa confusione attorno. Non è detto, però, che l’esperienza dello Sperimentale non abbia insegnato anche a loro qualcosa.
Nel 1979 il Liceo Sperimentale venne chiuso. I tempi erano cambiati.
Un consuntivo dell’esperienza del LUS non ho alcun titolo per farlo io da solo: occorrerebbe un confronto ampio e prolungato soprattutto con i professori che ci hanno insegnato, oltre che con pedagogisti ed esperti dei modelli scolastici. Mi pare che ci siano però alcune evidenze. L’eccellenza intellettuale e creativa non ha bisogno di una scuola superiore seria e disciplinata, e un paio di nomi - Valerio Magrelli, poeta, Marcella Diemoz, fisico – possono bastare a dimostrarlo. Le carriere professionali brillanti e riuscite, egualmente, non hanno bisogno di una scuola seria e disciplinata. Anche qui bastano un paio di nomi: Riccardo Barenghi e Francesca Archibugi (la quale, come regista, non sembra aver risentito più che tanto della sua scuola incasinata). Neppure la mia mediocrità – posso affermarlo serenamente – è dovuta allo scarso rigore di quella stramba scuola. Sembra insomma che, almeno per noi pochi ex-allievi dello Sperimentale, abbiano influito più le capacità individuali, la famiglia d’origine e la sorte che la baraonda scolastica. Ognuno è diventato ciò che è a furia di anni, e di casini ben diversi da quelli spensierati del riprovevole istituto di via della Bufalotta. L’evidenza, insomma, tenderebbe a suggerire che l’impatto della serietà o non-serietà di una scuola superiore sul destino professionale di un individuo sia scarso, se non nullo.
Ciò non significa che il Liceo Sperimentale non abbia influito in alcun senso sulla nostra crescita. Oggi c’è una pagina FB che riunisce un folto gruppo di ex-allievi e professori del Liceo Unitario Sperimentale; lì (oltre che sul sito creato da Roberto Renzetti) si possono trovare foto e qualche commento su quanto vissuto allora. In un post di quelle pagine c’è un’osservazione del mio amico e compagno di scuola Marco Tocilj che considero preziosa. Parlando dell’esperienza rappresentata per ciascuno di noi dallo Sperimentale, cita un proverbio africano: «Per educare un bambino ci vuole un villaggio», e chiosa: «l'essere cresciuto in un "villaggio di matti" mi ha molto aiutato ad interagire con la follia del mondo, quella degli altri e pure con la mia». Se una scuola disciplinata e produttiva insegna quale sia il proprio posto in un universo ben perimetrato, ordinato ed efficiente, lo Sperimentale ha insegnato piuttosto a muoversi in un mondo aperto, confuso ma ricco di stimoli, contraddittorio, dove le regole sono inefficaci, in cui i desideri personali hanno uno spazio esagerato, i diritti altrui uno spazio ancora maggiore, e ogni cosa va quindi discussa, un mondo in cui i doveri sono impegni e scelte personali, responsabilità intime, decisioni cresciute fra sé e sé. Lo Sperimentale ha insegnato a dialogare e a discutere non solo quando ci si comprende ma anche quando non si conosce la lingua dell’interlocutore - che magari sei tu stesso. Più in generale, a non sentirsi a disagio e in pericolo nel mare aperto della libertà.
Non è stato un modello replicabile. Piuttosto, è stata un’esperienza importante e da non dimenticare.
Non saprei dire se la definizione di “scuola libertaria” possa applicarsi senz'altro al Liceo Unitario Sperimentale. Di fatto una scuola libertaria lo è stata, ma non si è mai definita esplicitamente tale, e probabilmente neppure ha inteso esserlo. Al principio intendeva essere un esperimento didattico innovativo, poi anche, e forse soprattutto, un soggetto politico – simile a un soviet – parte attiva di una lotta più ampia. A posteriori, però, mi pare che la libertà quasi assoluta di cui ha goduto chi è stato studente di quella scuola strana sopravanzi di gran lunga ogni altro aspetto. Una libertà così singolare e inaccettabile – allora e oggi - da essere forse un caso di eterogenesi dei fini. La libertà, in ogni caso, è stata il motivo per cui ho amato il Liceo Unitario Sperimentale.
Non tutti hanno amato quella libertà, e lo ricordano in altri termini. Per esempio, Francesca Archibugi, che l’ha frequentato (così come i suoi fratelli) lo definisce con queste parole: «una scuola incasinata che all’epoca si disse che fu creata per un desiderio di Eleonora Moro, la moglie del presidente Dc molto in linea con le teorie sull’insegnamento libero e non convenzionale di Maria Montessori». E continua ricordando: «Riccardo Barenghi, che è stato direttore del “manifesto” e ora scrive sulla “Stampa”, ha tracciato una mappa dei reduci dal Lus: oltre a Giovanni Moro, figlio di Aldo, c’erano Valerio Magrelli, Fabio Ferzetti, Benedetta Loy, allora eravamo un gruppo di ragazzotti, aspiranti intellettuali, figli di un’utopia poi chiusa in fretta e furia. Adesso, per mia figlia, ho scelto il Visconti, il liceo più classico e tradizionale possibile». [1]
Una scuola incasinata lo Sperimentale, senz’altro. Nata all’inizio degli anni Settanta era piena di ragazzini (io li ricordo ragazzini, non ragazzotti) usciti dalle medie Montessori. La preside, la professoressa Pecchia, guida carismatica dello Sperimentale nei suoi primi anni, era una cattolica di sinistra vicina alla presidente dell’Ente Montessori, Eleonora Moro. I montessoriani – come li chiamavamo noi originari di altre scuole – facevano gruppo chiuso. E provenivano da un ambiente relativamente omogeneo, piuttosto elitario sia per cultura sia per reddito sia per collocazione politica. La leggenda vuole che per loro e solo per loro fosse nata quella scuola - che sarebbe però presto diventata qualcosa d’altro, molto più complesso e appunto incasinato. Certo lo Sperimentale non è stato un modello performante, per così dire, sotto il profilo dell’apprendimento standard e pensarlo accanto ai test Invalsi è se non altro straniante. Ma è stato, per me e forse per qualcun altro, la salvezza.
Io non sopportavo la scuola tradizionale. Le medie che avevo frequentato erano quelle di una sezione perbene (con alta percentuale di predestinati liceali, cioè) di un quartiere perbene di Roma, negli anni Sessanta. Il programma di storia finiva con la Prima Guerra Mondiale – per evitare di toccare il fascismo, argomento troppo divisivo. L’educazione era formale - una professoressa, addirittura, ci dava del lei. Si studiava sodo, si bocciava il giusto. In terza media avevo osato dichiarare che una poesia che ci era stata data – di Aleardo Aleardi – non mi era piaciuta, e ne era nato un grande scandalo, che si era riverberato per un pezzo nei commenti allibiti di tutti gli insegnanti che varcavano la soglia dell’aula. Io non accettavo la scuola, che mi procurava un dolore indicibile. Non tolleravo di dover fare ciò che mi veniva ordinato, non sopportavo di essere misurato con un numero, non capivo il senso di ciò che mi veniva insegnato, e mi impuntavo come un mulo. Andavo avanti come quei cani che tenuti per il guinzaglio vengono trascinati dal padrone e rischiano di strozzarsi, ma non cedono. Ero stato congedato dalle medie con “buono”, ma era evidente che il mio destino scolastico di buono mi avrebbe riservato ben poco.
Era l’estate del 1972 quando i miei vennero a sapere dell’esistenza di quella scuola così particolare, con metodi d’insegnamento più liberi, sperimentali. Avevano pietà per le mie sofferenze e decisero di rischiare. L’iscrizione non fu uno scherzo. La fama del Liceo Sperimentale, a due anni dalla sua nascita, si era diffusa per Roma, e le richieste d’iscrizione superavano di gran lunga i posti disponibili. Ci fu un genitore che, tre giorni prima dell’apertura delle iscrizioni, decise che ritornare il giorno successivo sarebbe stato troppo rischioso, e decise di fermarsi lì. Davanti alla scuola. La voce si sparse velocemente e in poche ore si formò una fila sul marciapiede di via Livenza, prima sede del liceo. I genitori rimasero per strada tre giorni e tre notti, accampati, con coperte e brandine. Dal Liceo Sperimentale ci si aspettava molto, e molti sacrifici si potevano fare per lui. Questa fila – mai atto burocratico fu più intriso d’amore – è stato l’atto mitologico di nascita del vero Sperimentale e l’inizio di una dépense allora inimmaginabile.
Una buona descrizione del Liceo Sperimentale (LUSS, come recitava la targa appesa accanto al portone della scuola: Liceo Unitario Statale Sperimentale) è quella data dal professor Turchi (mi sembra di ricordare che nel nostro liceo insegnasse scienze) sul sito Treccani.it.[1] Il punto fondamentale è che, differenza da tutte le altre sperimentazioni realizzate in alcune sezioni di alcune scuole negli anni Settanta, sperimentazioni che toccavano appena la didattica e in parte l’offerta formativa, nel Liceo Sperimentale la sperimentazione si concretizzava nella completa autogestione. Ogni aspetto, didattico, organizzativo, disciplinare, era stabilito dall’Assemblea Generale, che riuniva le tre componenti della scuola: insegnanti, studenti, genitori. E poiché il criterio di suffragio era “un uomo, un voto” il peso della componente studentesca era tale da poter essere compensato solo dall’”alleanza” di insegnanti e genitori. Di fatto la gestione era comune sotto ogni punto di vista.
Le materie curricolari, insegnate la mattina, erano più o meno quelle consuete nei licei; il primo biennio era comune a tutti, nel triennio si poteva scegliere fra due indirizzi, classico e scientifico. La didattica era organizzata principalmente intorno al lavoro di gruppo, da svolgersi in classe, senza libri di testo che tracciassero la rotta. C’era però a disposizione una biblioteca d’istituto eccezionale, a scaffale aperto, ricchissima, gestita col contributo volontario e gratuito di genitori-bibliotecari (ricordo la signora Mayer, la signora Pannilini accanto alla stufetta elettrica). L’interdisciplinarietà era la bandiera di ogni materia d’insegnamento, che si incontrava e si intrecciava – talvolta pretestuosamente - con altre affini. La storia contemporanea era privilegiata e i programmi partivano sempre dall’oggi per risalire al passato; anche nell’insegnamento delle materie scientifiche la dimensione storica era tenuta presente. I banchi era disposti (come da consuetudini montessoriane) a ferro di cavallo; si usavano quadernoni ad anello in modo da spostare blocchi di appunti da un settore o da un quaderno all’altro secondo le esigenze. Le classi erano nel biennio di una quindicina di alunni, nel mio triennio eravamo in nove. Soprattutto, non c’erano voti, ma una valutazione discorsiva di fine anno, che consisteva più un feedback che in un giudizio. Non c’erano compiti in classe e neppure a casa; si rimaneva infatti a scuola fino a metà pomeriggio, ma non per esercitarsi nelle materie della mattina bensì per seguire infiniti corsi “extra-curricolari” liberamente scelti da ciascuno che mescolavano gli allievi di sezioni ed età differenti. Non c’erano bocciature.
In un simile contesto scolastico, per quanto riguardava me, ero in salvo. Niente angoscia, quindi nessuna necessità di oppormi. In questo senso il Liceo Sperimentale è stata la mia liberazione e salvezza.
Sono del tutto evidenti i due punti deboli di una simile scuola: l’assenza di spazi per l’esercizio individuale, specie per quello più ripetitivo e noioso che quasi ogni studente evita volentieri, e l’assenza di strumenti di motivazione coercitiva, cioè brutti voti e minacce di bocciatura. La deriva verso il paese dei balocchi probabilmente era congenita nella struttura stessa della scuola, così come era stata concepita, ma avrebbe potuto essere in parte arginata se lo spirito montessoriano delle origini – un’attitudine di serio lavoro in cui vigeva un’autodisciplina scaturita dalla partecipazione attiva all’interno di un piccolo gruppo omogeneo e fortemente motivato – avesse potuto resistere allo spirito dei tempi. Che però non andava verso i Boy Scout ma verso la Rivoluzione.
Il boom delle iscrizioni dell’anno scolastico 1972-73 si tradusse, l’anno successivo, grazie alla piena autogestione, in uno spostamento del baricentro politico della scuola verso sinistra. Il favore che fino ad allora il Ministero aveva accordato alla sperimentazione scomparve improvvisamente. La componente cattolica e montessoriana, ormai ben poco rilevante, si dissolse con il trasferimento d’ufficio ad altro incarico della preside Pecchia e di alcuni insegnanti. Nell’aprile 1974 la palazzina di via Panzini, che era stata assegnata alla scuola nel 1972, venne dichiarata inagibile dai Vigili del Fuoco. Si profilava, di fatto, la fine dell’esperimento e lo scioglimento dell’istituto. A questa prospettiva l’Assemblea Generale reagì con la decisione di occupare (in accordo con la Circoscrizione) un edificio abbandonato su via della Bufalotta, oltre il Grande Raccordo Anulare, in mezzo alla campagna: l’ex-IRASPS.
L’occupazione e la successiva risistemazione del fatiscente edificio fu il secondo momento mitico fondativo nella storia dello Sperimentale. Un momento che può essere ricordato in modi differenti: come un gesto di lotta politica, come un avventuroso romantico slancio di tutta una comunità, come un rilancio esaltato, utopico e isolazionista. Parteciparono tutti, studenti, genitori, insegnanti, venne fatta una colletta e fu un gran lavoro di mani e di braccia. Alla fine c’erano i vetri alle finestre, le pareti ripulite e decorate di murales, una bandiera rossa sul tetto. Le istituzioni, da parte loro, piegate infine dalla lotta, collaborarono con la fornitura di un congruo numero di vecchie stufe a legna di ghisa.
Venne affrontato il problema di ciò che altrove era considerato disciplina, e che allo Sperimentale era anzitutto una questione di democrazia. Lungamente discusso e dibattuto, osteggiato dalle componenti più radicali, sostenuto dai moderati, cioè dall’area che si riconosceva nel PCI, venne infine approvato nel giugno 1974 un Regolamento.. La nostra Costituzione, per così dire, prevedeva dei limiti all’attività politica nella scuola, limiti assai ampi ma pur sempre limiti, e delle sanzioni nel caso di assenze massicce dalle lezioni. La bocciatura era possibile solo nel caso di assenze superiori al 35% in almeno 4 materie. L’attenzione del legislatore si concentrava cioè sui due maggiori ostacoli all’attività didattica: le assemblee quotidiane e le assenze. Erano inoltre considerati alcuni dettagli: i ritardi, le giustificazioni, il divieto di fumo in classe.
Ci furono notevoli sforzi per rispettare e far rispettare il Regolamento, ma non si può dire siano stati coronati da successi decisivi. Il Regolamento è in realtà la radiografia da cui si evince la realtà quotidiana dello Sperimentale: ciò che lì viene proibito è esattamente ciò che caratterizzava l’andamento normale della scuola. L’attività politica occupava tutto lo spazio che riteneva opportuno occupare, i ritardi erano normali, e comunque la prima mezz’ora, d’inverno, andava via per accendere la stufa e la seconda mezz’ora per discutere se si potesse fumare con la finestra socchiusa o invece aperta o davvero non si potesse fumare affatto – magari uno alla volta…? Tutto poteva, tutto doveva essere discusso e votato, per essere poi discusso di nuovo. Decideva certo l’Assemblea Generale, in linea di principio, ma decideva soprattutto la classe. Questo discutere incessante, sistematico, ossessivo, è stato una palestra dialettica e politica straordinaria, ed era un’attività formativa alla pari o forse più importante, per molti di noi, dello studio. Ma era anche un’attività inane e stravagante, fine a se stessa come un gioco. Una sola volta, che io sappia, si è dato il caso di uno studente che si è trovato a fine d’anno con più del 60% di assenze in tutte le materie. Il caso è stato dibattuto proprio nella mia classe. Il Regolamento prevedeva la bocciatura, ma diceva anche che se le assenze erano dovute a “cause di forza maggiore” si poteva soprassedere. La discussione fu surreale, le assenze erano dovute a cause incerte e praticamente indefinibili. Arrivati al voto, furono per la bocciatura tutti gli insegnanti, i due rappresentanti dei genitori e due degli studenti (io e il mio migliore amico, Lorenzo Ascoli). Gli altri miei compagni di classe però votarono tutti contro, per solidarietà e per principio: e quel ragazzo, di cui nessuno di noi ricordava bene il viso, che nessuno aveva mai conosciuto né frequentato, venne promosso.
Nell’allegra e appassionata baraonda del nostro liceo, però, non è affatto vero che non si studiasse. Semplicemente, lo studio era una scelta personale e si concretizzava attraverso un preciso atto di volontà. Pochi studiavano tutto, alcuni solo alcune materie. Ma oltre a quelle curricolari della mattina c’erano le attività pomeridiane, ed era impossibile che qualcuno non amasse almeno qualcosa. Teatro e musica avevano insegnanti straordinari (Wilda Ciurlo e Meri Franco Lao), c’era fotografia, psicologia, architettura, sociologia, economia, pedagogia, ceramica, storia delle religioni, e chissà quante altre materie che ora non ricordo, c’era un cineclub dove ho visto tutto Buñuel e tutto Bergman. Spesso venivano ospiti esterni a tenere incontri o seminari (ricordo per esempio una straordinaria analisi dello stile musicale di Beethoven proposta non so più da chi) o semplicemente a parlare della loro esperienza (ricordo Ferruccio Parri, ricordo Cancrini). Quella che in burocratese si chiama oggi “offerta formativa” era una foresta tropicale lussureggiante di proposte, inviti, suggerimenti e adescamenti, possibilità illimitate promettenti tutto lo scibile umano, una specie di paradiso terrestre del sapere, dove potevamo annoiarci a volontà allungando una mano distrattamente per prendere il frutto più vicino e maturo. Gli insegnanti cercavano di fare lezioni tradizionali, rese molto frammentarie dalle condizioni di gestione complessive, ma erano a disposizione dei singoli. A disposizione nel senso più pieno: per esempio, l’ultimo anno mi sono appassionato di filosofia, e con la mia prof ho passato molti giorni in biblioteca fuori dell’orario scolastico a leggere la Critica della Ragion Pratica, commentata da lei per me, passo per passo, interamente. E così poteva essere, volendo, per ogni materia, per ogni cosa.
Quando il tempo era buono spesso si stava all’aperto. La sede di via della Bufalotta era stata una colonia agricola, c’era un ampio uliveto alle spalle dell’edificio e lì si rimaneva spesso sdraiati sull’erba. Ricordo un “corso sull’erba” su Thomas Mann, tenuto da Carlo Illuminati, bellissimo. Ogni tanto arrivavano delle mucche, e talvolta si mettevano a correre causando un fuggi fuggi collettivo. Oltre alle mucche c’erano gli amatissimi cani randagi adottati dalla scuola (fra cui l’indimenticabile Iskra), che d’estate disturbavano le greggi che passavano da quelle parti (ho ancora in mente l’immagine di un pastore, in cioce, arrabbiatissimo in attesa di fronte alla porta chiusa della presidenza) e d’inverno, con la pioggia, venivano ad asciugarsi all’interno (l’unica proibizione davvero rispettata nella scuola era il divieto per i cani di scrollarsi in biblioteca). Era di fatto possibile entrare e uscire dalla classe e dalla scuola liberamente - in realtà bastava rispettare le comuni regole d’educazione, che vogliono che quando uno si allontana da un gruppo accenni al motivo e saluti. Le giustificazioni, obbligatorie, erano un mero ornamento burocratico a una realtà di rapporti fondata sulla conoscenza reciproca, che implicava il rispetto per la libertà di ciascuno, compresa quella di sbagliare deliberatamente. Tutto l’anno qui e là e sotto il portico, a ogni ora, si potevano trovare coppie che si baciavano.
Ora, tutto questo sembra assurdo eppure era scuola, nel senso più ampio possibile. Per alcuni, come me, è stato anche studio. Sbagliando - posso ben dirlo, a posteriori - ho studiato solo le materie umanistiche, non frequentando neppure un’ora di scienze naturali, di fisica e di matematica per tre anni (meno delle quattro materie che secondo il Regolamento avrebbero potuto condurre a bocciatura), ma quello che ho studiato l’ho studiato intensamente e appassionatamente. Qualcosa di ciò che richiede esercizio l’ho imparato, lì a scuola, da autodidatta (per esempio a scrivere) e altro non l’ho imparato - troppo scarso, per esempio, è stato il lavoro su latino e greco per consolidare quanto fatto in classe. Così, moltissimo di ciò che avrei dovuto assimilare al liceo l’ho appreso più tardi, durante l’università e dopo, rimpiangendo via via di non averlo studiato allora. Certamente però in una scuola tradizionale sarei rimasto bloccato dall’angoscia e dalla ribellione e non avrei combinato nulla.
Per molti altri miei compagni invece il Liceo Sperimentale non è stato altrettanto positivo. Il tempo perso, gli spazi illimitati di distrazione, la dispersione in troppe materie, la mancanza di quegli esercizi che permettono alla fine di possedere una pratica intellettuale, lo spazio grandissimo preso dall’attività politica, l’impegno richiesto dalla gestione assembleare di ogni singolo atto, ma soprattutto l’assenza di qualunque forma di disciplina che non fosse autodisciplina, non hanno permesso ad alcuni di imparare ciò che avrebbero potuto e voluto imparare; per altri non è stato possibile neppure intuire che c’era qualcosa di interessante da imparare. Troppa confusione attorno. Non è detto, però, che l’esperienza dello Sperimentale non abbia insegnato anche a loro qualcosa.
Nel 1979 il Liceo Sperimentale venne chiuso. I tempi erano cambiati.
Un consuntivo dell’esperienza del LUS non ho alcun titolo per farlo io da solo: occorrerebbe un confronto ampio e prolungato soprattutto con i professori che ci hanno insegnato, oltre che con pedagogisti ed esperti dei modelli scolastici. Mi pare che ci siano però alcune evidenze. L’eccellenza intellettuale e creativa non ha bisogno di una scuola superiore seria e disciplinata, e un paio di nomi - Valerio Magrelli, poeta, Marcella Diemoz, fisico – possono bastare a dimostrarlo. Le carriere professionali brillanti e riuscite, egualmente, non hanno bisogno di una scuola seria e disciplinata. Anche qui bastano un paio di nomi: Riccardo Barenghi e Francesca Archibugi (la quale, come regista, non sembra aver risentito più che tanto della sua scuola incasinata). Neppure la mia mediocrità – posso affermarlo serenamente – è dovuta allo scarso rigore di quella stramba scuola. Sembra insomma che, almeno per noi pochi ex-allievi dello Sperimentale, abbiano influito più le capacità individuali, la famiglia d’origine e la sorte che la baraonda scolastica. Ognuno è diventato ciò che è a furia di anni, e di casini ben diversi da quelli spensierati del riprovevole istituto di via della Bufalotta. L’evidenza, insomma, tenderebbe a suggerire che l’impatto della serietà o non-serietà di una scuola superiore sul destino professionale di un individuo sia scarso, se non nullo.
Ciò non significa che il Liceo Sperimentale non abbia influito in alcun senso sulla nostra crescita. Oggi c’è una pagina FB che riunisce un folto gruppo di ex-allievi e professori del Liceo Unitario Sperimentale; lì (oltre che sul sito creato da Roberto Renzetti) si possono trovare foto e qualche commento su quanto vissuto allora. In un post di quelle pagine c’è un’osservazione del mio amico e compagno di scuola Marco Tocilj che considero preziosa. Parlando dell’esperienza rappresentata per ciascuno di noi dallo Sperimentale, cita un proverbio africano: «Per educare un bambino ci vuole un villaggio», e chiosa: «l'essere cresciuto in un "villaggio di matti" mi ha molto aiutato ad interagire con la follia del mondo, quella degli altri e pure con la mia». Se una scuola disciplinata e produttiva insegna quale sia il proprio posto in un universo ben perimetrato, ordinato ed efficiente, lo Sperimentale ha insegnato piuttosto a muoversi in un mondo aperto, confuso ma ricco di stimoli, contraddittorio, dove le regole sono inefficaci, in cui i desideri personali hanno uno spazio esagerato, i diritti altrui uno spazio ancora maggiore, e ogni cosa va quindi discussa, un mondo in cui i doveri sono impegni e scelte personali, responsabilità intime, decisioni cresciute fra sé e sé. Lo Sperimentale ha insegnato a dialogare e a discutere non solo quando ci si comprende ma anche quando non si conosce la lingua dell’interlocutore - che magari sei tu stesso. Più in generale, a non sentirsi a disagio e in pericolo nel mare aperto della libertà.
Non è stato un modello replicabile. Piuttosto, è stata un’esperienza importante e da non dimenticare.