Antiche ma attuali memorie sperimentali
Pubblicato il: 26/02/2020 07:45:20 - ANDREA TURCHI
http://www.educationduepuntozero.it/
Un aspetto peculiare delle vicende storiche italiane (e non solo) degli anni Settanta, a volte sotto stimato, è l’esplosione di creatività e di inventività che ha permeato tanti settori della società. Il nuovo, il sorprendente, lo scarto rispetto alle abitudini più sedimentate, è stata la cifra culturale più rilevante di quell’epoca, che non ha coinvolto solo, come ovvio, i settori della vita artistica e intellettuale, ma la stessa vita civile ed economica. Le idee rivoluzionarie, allora così vive e presenti nelle giovani generazioni, erano tanto più apprezzate in quanto rompevano con il consueto, lo stabilito, lo sperimentato. Queste esplosioni di creatività spesso sorgevano rapide e spesso altrettanto rapidamente si esaurivano; in altri casi si sedimentavano in progetti di più lungo corso: mi viene qui da citare la comunità Saman, fondata da Mauro Rostagno in Sicilia nel 1981.
Tuttavia, anche nel caso di progetti più sedimentati e articolati, la circolazione della documentazione è rimasta spesso scarsa e locale, limitata più o meno allo stesso entourage che promuoveva l’idea. I motivi di questo isolamento sono oggetto di dibattito: si discute infatti su quanto ciò sia dipeso dalla natura ‘estrema’ dell’innovazione e dal culto dell’alterità dei suoi proponenti, e quindi dalla sua non fruibilità in contesti diversi, e quanto dalla ‘ottusità’ del sistema culturale ed economico che circondava quella esperienza – circondava nel senso che spesso la isolava in una specie di cordone sanitario ben poco penetrabile –. Personalmente sono propenso a considerare un insieme delle due cause, anche perché l’una non esisterebbe senza l’altra.
Come è nato il progetto memorie sperimentali Queste considerazioni forse permettono di capire meglio il progetto Memorie sperimentali portato avanti dal 2015 da alcuni ex-studenti ed ex-insegnanti (tra cui il sottoscritto) del Liceo Unitario Sperimentale di Roma, una maxisperimentazione (la prima in Italia, insieme ad altre tre) che iniziò nel 1970 e si concluse nel 1980 (ma le iscrizioni erano state chiuse tre anni prima) e che coinvolse circa 500 studenti e 50 insegnanti. L’idea di fondo è stata che una esperienza di scuola così particolare e significativa dovesse essere in qualche modo oggettivata, in modo da costituire un riferimento di studio per coloro (anche se pochi) che si interessano in modo non casuale ma professionale delle questioni della educazione e della sua storia in Italia. Può risultare sorprendente che questa iniziativa sia sorta a più di quarant’anni dalla fine di quella esperienza, ma tanto è stato necessario per maturare un allarme e una necessità: quella esperienza non doveva andare dispersa e finire con le esistenze dei suoi protagonisti perché, a giudizio di tutti coloro che hanno partecipato a questa attività di recupero della documentazione, quella esperienza è stata significativa su tutti i principali temi dell’istruzione: l’organizzazione degli studi, l’articolazione delle opzioni disciplinari, i metodi di valutazione, la costruzione di una comunità educante, i rapporti tra le componenti, la libertà dell’insegnare e dell’apprendere.
Su tutti questi temi, le riflessioni del gruppo di progetto per la raccolta della documentazione del LUS non sono state affatto convergenti: in alcuni casi risultano fortemente critiche, in altri più inclini a sottolineare quanto quella esperienza potrebbe ancora essere utile e innovativa nell’attuale scuola. Non si è nemmeno tutti allineati nella spiegazione del fallimento (ossia, più prosaicamente, della fine) del progetto: fu soprattutto l’eccezionalità estrema della proposta a renderla non praticabile oppure fu la resilienza del sistema (come spiega bene Michela Mayer nell’articolo accanto) a piegare in modo definitivo quell’idea nuova di scuola? Ma, al di là delle divergenze di interpretazione, una considerazione ha accumunato tutti i protagonisti del progetto: quella del LUS è stata un’esperienza importante, intelligente frutto della creatività dell’epoca (e non del tutto estemporanea, viste le competenze educative di alcuni suoi docenti del tempo) e che a tutti è sembrato urgente fissare nella memoria collettiva.
Il progetto delle Memorie sperimentali è stato impostato e iniziato dal Circolo Gianni Bosio che, oltre a rappresentare il principale centro di raccolta italiano della musica e della cultura popolare, da molti anni svolge anche una intensa attività (in appositi fondi) di archiviazione di materiali di storia sociale italiana degli ultimi decenni, Così è partito sia un lavoro di ricognizione e recupero della documentazione giacente presso molti dei protagonisti di allora, sia una raccolta di interviste (audio o video) degli stessi protagonisti dell’epoca. Alcune decine di ex docenti, ex studenti e loro genitori hanno fornito la documentazione prodotta da quella esperienza, che è stata catalogata e classificata secondo vari filoni documentari: decreti ministeriali e documentazione ufficiale della sperimentazione; documenti politici legati all’esperienza del LUS; organizzazione e gestione della scuola; didattica (a sua volta suddivisa in programmazione, valutazione, materiali e strumenti, prodotti didattici); memorialistica; articoli di stampa sull’esperienza. Finora sono stati raccolti circa 500 documenti, risalenti per lo più al periodo 1973-1976.
Nello stesso tempo sono state realizzate 67 interviste, per un totale di 85 (53 femmine e 32 maschi) intervistati (alcune interviste erano di gruppo) che coprono complessivamente circa 75 ore. Sono stati intervistati 47 alunni, 19 genitori, 17 professori, 1 del personale ausiliario, 1 segretaria. Estratti delle interviste sono confluiti in un video della durata di circa 35 minuti.
Al termine della raccolta del materiale, coordinata in modo ‘feroce’ e impeccabile da una ex-allieva, Fiammetta Formentini, è scaturita la decisione di presentare al pubblico il frutto di questo lavoro collettivo. È la prima uscita ufficiale verso ‘l’esterno’ di quella esperienza dopo la sua chiusura e ha un valore emblematico perché cade in un momento storico in cui è in discussione l’importanza sociale della scuola. Il presupposto è che per conservare tale importanza non si deve racchiudere l’istruzione nei suoi valori tradizionali (per di più spesso storicamente inesistenti e inventati da coloro che li propugnano) quando spingerla oltre i traguardi consueti, rompere gli schemi, reinventarsi obiettivi e modi di funzionamento, come tentarono di fare, con tante contraddizioni ma anche con un’insopprimibile e sana voglia di cambiamento, quei giovani docenti e quei giovanissimi studenti di tanti anni fa.
Andrea Turchi
http://www.educationduepuntozero.it/
Un aspetto peculiare delle vicende storiche italiane (e non solo) degli anni Settanta, a volte sotto stimato, è l’esplosione di creatività e di inventività che ha permeato tanti settori della società. Il nuovo, il sorprendente, lo scarto rispetto alle abitudini più sedimentate, è stata la cifra culturale più rilevante di quell’epoca, che non ha coinvolto solo, come ovvio, i settori della vita artistica e intellettuale, ma la stessa vita civile ed economica. Le idee rivoluzionarie, allora così vive e presenti nelle giovani generazioni, erano tanto più apprezzate in quanto rompevano con il consueto, lo stabilito, lo sperimentato. Queste esplosioni di creatività spesso sorgevano rapide e spesso altrettanto rapidamente si esaurivano; in altri casi si sedimentavano in progetti di più lungo corso: mi viene qui da citare la comunità Saman, fondata da Mauro Rostagno in Sicilia nel 1981.
Tuttavia, anche nel caso di progetti più sedimentati e articolati, la circolazione della documentazione è rimasta spesso scarsa e locale, limitata più o meno allo stesso entourage che promuoveva l’idea. I motivi di questo isolamento sono oggetto di dibattito: si discute infatti su quanto ciò sia dipeso dalla natura ‘estrema’ dell’innovazione e dal culto dell’alterità dei suoi proponenti, e quindi dalla sua non fruibilità in contesti diversi, e quanto dalla ‘ottusità’ del sistema culturale ed economico che circondava quella esperienza – circondava nel senso che spesso la isolava in una specie di cordone sanitario ben poco penetrabile –. Personalmente sono propenso a considerare un insieme delle due cause, anche perché l’una non esisterebbe senza l’altra.
Come è nato il progetto memorie sperimentali Queste considerazioni forse permettono di capire meglio il progetto Memorie sperimentali portato avanti dal 2015 da alcuni ex-studenti ed ex-insegnanti (tra cui il sottoscritto) del Liceo Unitario Sperimentale di Roma, una maxisperimentazione (la prima in Italia, insieme ad altre tre) che iniziò nel 1970 e si concluse nel 1980 (ma le iscrizioni erano state chiuse tre anni prima) e che coinvolse circa 500 studenti e 50 insegnanti. L’idea di fondo è stata che una esperienza di scuola così particolare e significativa dovesse essere in qualche modo oggettivata, in modo da costituire un riferimento di studio per coloro (anche se pochi) che si interessano in modo non casuale ma professionale delle questioni della educazione e della sua storia in Italia. Può risultare sorprendente che questa iniziativa sia sorta a più di quarant’anni dalla fine di quella esperienza, ma tanto è stato necessario per maturare un allarme e una necessità: quella esperienza non doveva andare dispersa e finire con le esistenze dei suoi protagonisti perché, a giudizio di tutti coloro che hanno partecipato a questa attività di recupero della documentazione, quella esperienza è stata significativa su tutti i principali temi dell’istruzione: l’organizzazione degli studi, l’articolazione delle opzioni disciplinari, i metodi di valutazione, la costruzione di una comunità educante, i rapporti tra le componenti, la libertà dell’insegnare e dell’apprendere.
Su tutti questi temi, le riflessioni del gruppo di progetto per la raccolta della documentazione del LUS non sono state affatto convergenti: in alcuni casi risultano fortemente critiche, in altri più inclini a sottolineare quanto quella esperienza potrebbe ancora essere utile e innovativa nell’attuale scuola. Non si è nemmeno tutti allineati nella spiegazione del fallimento (ossia, più prosaicamente, della fine) del progetto: fu soprattutto l’eccezionalità estrema della proposta a renderla non praticabile oppure fu la resilienza del sistema (come spiega bene Michela Mayer nell’articolo accanto) a piegare in modo definitivo quell’idea nuova di scuola? Ma, al di là delle divergenze di interpretazione, una considerazione ha accumunato tutti i protagonisti del progetto: quella del LUS è stata un’esperienza importante, intelligente frutto della creatività dell’epoca (e non del tutto estemporanea, viste le competenze educative di alcuni suoi docenti del tempo) e che a tutti è sembrato urgente fissare nella memoria collettiva.
Il progetto delle Memorie sperimentali è stato impostato e iniziato dal Circolo Gianni Bosio che, oltre a rappresentare il principale centro di raccolta italiano della musica e della cultura popolare, da molti anni svolge anche una intensa attività (in appositi fondi) di archiviazione di materiali di storia sociale italiana degli ultimi decenni, Così è partito sia un lavoro di ricognizione e recupero della documentazione giacente presso molti dei protagonisti di allora, sia una raccolta di interviste (audio o video) degli stessi protagonisti dell’epoca. Alcune decine di ex docenti, ex studenti e loro genitori hanno fornito la documentazione prodotta da quella esperienza, che è stata catalogata e classificata secondo vari filoni documentari: decreti ministeriali e documentazione ufficiale della sperimentazione; documenti politici legati all’esperienza del LUS; organizzazione e gestione della scuola; didattica (a sua volta suddivisa in programmazione, valutazione, materiali e strumenti, prodotti didattici); memorialistica; articoli di stampa sull’esperienza. Finora sono stati raccolti circa 500 documenti, risalenti per lo più al periodo 1973-1976.
Nello stesso tempo sono state realizzate 67 interviste, per un totale di 85 (53 femmine e 32 maschi) intervistati (alcune interviste erano di gruppo) che coprono complessivamente circa 75 ore. Sono stati intervistati 47 alunni, 19 genitori, 17 professori, 1 del personale ausiliario, 1 segretaria. Estratti delle interviste sono confluiti in un video della durata di circa 35 minuti.
Al termine della raccolta del materiale, coordinata in modo ‘feroce’ e impeccabile da una ex-allieva, Fiammetta Formentini, è scaturita la decisione di presentare al pubblico il frutto di questo lavoro collettivo. È la prima uscita ufficiale verso ‘l’esterno’ di quella esperienza dopo la sua chiusura e ha un valore emblematico perché cade in un momento storico in cui è in discussione l’importanza sociale della scuola. Il presupposto è che per conservare tale importanza non si deve racchiudere l’istruzione nei suoi valori tradizionali (per di più spesso storicamente inesistenti e inventati da coloro che li propugnano) quando spingerla oltre i traguardi consueti, rompere gli schemi, reinventarsi obiettivi e modi di funzionamento, come tentarono di fare, con tante contraddizioni ma anche con un’insopprimibile e sana voglia di cambiamento, quei giovani docenti e quei giovanissimi studenti di tanti anni fa.
Andrea Turchi
Resilienza e scuola, il futuro è già passato
Resilienza è una parola sempre più di moda, additata spesso come stella cometa da seguire, come caratteristica desiderabile e per la quale impegnarsi nella trasformazione verso un mondo, e quindi anche verso una scuola, più sostenibile. In cui sostenibilità vuol dire anche «istruzione di qualità per tutti», come recita il SDG (Sustainable Development Goals) n.4 dell’Agenda 2030.
Ma una riflessione sull’evoluzione della scuola Italiana negli ultimi 50 anni, dagli anni ’70 ad oggi, permette di capire come la resilienza dei sistemi educativi, in generale ma soprattutto in Italia, non sia un obiettivo ma un ostacolo: resilienza (da resiliens, che resiste, che rimbalza) è definita infatti in fisica come ‘resistenza al cambiamento’ o anche, in ecologia, come la «velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione». La resilienza è quindi quella caratteristica che si oppone al cambiamento, individuale, sociale ed ecologico. Certo se il cambiamento è peggiorativo o traumatico, la resilienza del sistema è un vantaggio ma, per quel che riguarda la scuola italiana, la resilienza ha voluto dire ritornare sostanzialmente a una scuola del passato – nemmeno tanto efficace, come dicono i dati PISA – anche se i tempi sono cambiati per cultura – o non cultura – diffusa, conoscenze sia scientifiche sia sociali, popolazione scolastica, e così via.
Un caso di perturbazione del sistemaLa perturbazione di cui voglio parlare sarà presentata il 5 marzo prossimo alla Casa della Memoria del Circolo Gianni Bosio, a Roma, e riguarda uno dei primi esempi di licei sperimentali. Il LUS, Liceo Unitario Sperimentale della Bufalotta, nato nel 1970, aveva l’obiettivo di sperimentare un possibile progetto di riforma della scuola secondaria superiore, seguendo la proposta sintetizzata nei Dieci punti di Frascati, risultato di un incontro tra esperti italiani e esperti internazionali dell’OCSE, voluto da Aldo Visalberghi e organizzato dall’allora Ministero dell’Istruzione. Nei dieci punti, tra i quali c’era già allora «La conclusione del percorso scolastico a 18 anni» – per riportarci alla media europea e evitare di penalizzare i nostri giovani – i più importanti e ‘sperimentabili’ erano:
Giovani e meno giovani insegnanti che il ’68 lo avevano vissuto, genitori e studenti che cercavano una scuola meno autoritaria, accettano la sfida e danno il via a un periodo di ‘sperimentazione’. Maxi o mini-sperimentazioni, per più di un decennio idee nuove hanno circolato nella scuola italiana: licei sperimentali, ma anche tempo pieno alle elementari, scuole dell’infanzia divenute famose a livello mondiale, istituti universitari che si occupano di didattica, che offrono borse di studio per la didattica e laboratori per insegnanti.
Per la scuola secondaria la sfida non è solo strutturale, ma culturale: quale cultura in una scuola unitaria aperta al presente? Riprendendo di nuovo quanto scritto allora: «Quale sia questa cultura «alternativa» di cui gli studenti parlano, non è facile dire; tuttavia ci sembra che essa vada Identificata in una capacità di comprensione del presente in vista di scelte da compiersi per l’avvenire; mentre invece la cultura tradizionale potrebbe essere definita come consapevolezza delle conoscenze accumulate nel passato, che indubbiamente servono alla comprensione del presente, ma che sono studiate piuttosto come un valore in sé. Questa distinzione si traduce, sul piano didattico, nello studio dei problemi anziché delle materie, per cui la matematica invece di essere una tecnica per l’acquisizione delle nozioni, diventa una metodologia della ricerca, dove «la scelta del problemi e il modo di studiarli sono essi stessi ipotesi da verificare e non fatti acquisiti» (E. Gelpi, Scuola senza cattedra, Milano 1969, p. 40 in Reguzzoni, Scuola Secondaria, Settembre-Ottobre, 1970)
Tutto questo diventa motivo e sostanza nella scuola sperimentale e, come proposto dalla Commissione Biasini nel 1972, nel LUS si sperimenta una scuola ‘comprensiva’: una scuola cioè con «struttura unitaria, articolata al suo interno in materie comuni, opzionali ed elettive, e completamente estranea a finalità professionali». Ma a questi obiettivi il LUS aggiunge una richiesta di libertà, e al tempo stesso di democrazia, propria di quel periodo, e una volontà di provare a fare le cose per capirle, e a farle e capirle assieme. Non si possono rinnovare solo le materie: anche l’organizzazione deve cambiare, il modo di studiare (libri di testo o ‘libri’? O anche esperimenti, azioni, performance?). Deve cambiare il modo di valutare: se la valutazione deve essere formativa, è lo studente che deve imparare a valutarsi, tenendo conto dei feedbacks, degli elementi di realtà che l’insegnante, ma anche i suoi compagni, gli mettono davanti.
L’utopia accompagnava l’ansia di innovazione e la sperimentazione attenta ai fatti. Il LUS, ma anche altre scuole sperimentali in quel tempo, erano un esempio di quelle learning organizations, organizzazioni che apprendono, e continuano a domandarsi come migliorare, che nel convegno dell’OCSE a Poitiers nel 2003, sono state indicate come «uno degli scenari di sviluppo futuro della scuola».
La resilienza vince la perturbazioneI tempi cambiano, i decreti delegati hanno riportato ‘ordine’ alla partecipazione di studenti e genitori alla vita della scuola, le sperimentazioni troppo avventurose sono state chiuse rapidamente (ma senza ammetterlo pubblicamente: il LUS fu chiuso per inagibilità dell’edificio), altre successivamente, e la scuola nata dal ’68, che stava cominciando a mettere in discussione culture e privilegi, non ha resistito alla resilienza del sistema.
Ma non è l’unico cambiamento sul quale la resilienza del sistema ha avuto la meglio (e per sistema si intende non solo l’organizzazione istituzionale, ma anche i sindacati, i genitori, buona parte degli insegnanti stessi, gli ‘intellettuali’, che senza essersi mai occupati attivamente di scuola pontificano sul suo fallimento). Pensiamo al tempo pieno nella scuola dell’obbligo, spesso rimasto come numero di ore ma non come metodologia di lavoro collaborativo, ai laboratori scientifici spesso non utilizzati anche se presenti, e soprattutto alla formazione universitaria degli insegnanti (uno dei 10 punti di Frascati) scambiata per il possesso di una laurea e di qualche credito formativo in materie pedagogiche. Come se per insegnare fosse sufficiente semplicemente conoscere la materia, o saper citare qualche pedagogista. Se si vuole combattere la resilienza, i cambiamenti devono essere essi stessi ‘resilienti’, compresi dagli addetti ai lavori, supportati per un tempo sufficientemente lungo, condivisi con chi dovrà viverli sulla propria pelle…. in pratica, una rivoluzione.
Michela Mayer
Ma una riflessione sull’evoluzione della scuola Italiana negli ultimi 50 anni, dagli anni ’70 ad oggi, permette di capire come la resilienza dei sistemi educativi, in generale ma soprattutto in Italia, non sia un obiettivo ma un ostacolo: resilienza (da resiliens, che resiste, che rimbalza) è definita infatti in fisica come ‘resistenza al cambiamento’ o anche, in ecologia, come la «velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione». La resilienza è quindi quella caratteristica che si oppone al cambiamento, individuale, sociale ed ecologico. Certo se il cambiamento è peggiorativo o traumatico, la resilienza del sistema è un vantaggio ma, per quel che riguarda la scuola italiana, la resilienza ha voluto dire ritornare sostanzialmente a una scuola del passato – nemmeno tanto efficace, come dicono i dati PISA – anche se i tempi sono cambiati per cultura – o non cultura – diffusa, conoscenze sia scientifiche sia sociali, popolazione scolastica, e così via.
Un caso di perturbazione del sistemaLa perturbazione di cui voglio parlare sarà presentata il 5 marzo prossimo alla Casa della Memoria del Circolo Gianni Bosio, a Roma, e riguarda uno dei primi esempi di licei sperimentali. Il LUS, Liceo Unitario Sperimentale della Bufalotta, nato nel 1970, aveva l’obiettivo di sperimentare un possibile progetto di riforma della scuola secondaria superiore, seguendo la proposta sintetizzata nei Dieci punti di Frascati, risultato di un incontro tra esperti italiani e esperti internazionali dell’OCSE, voluto da Aldo Visalberghi e organizzato dall’allora Ministero dell’Istruzione. Nei dieci punti, tra i quali c’era già allora «La conclusione del percorso scolastico a 18 anni» – per riportarci alla media europea e evitare di penalizzare i nostri giovani – i più importanti e ‘sperimentabili’ erano:
- Un biennio di conclusione della scuola dell’obbligo (realizzato solo nel 2007) unico (e questo non è mai stato realizzato), dal quale si potesse accedere a tutti gli indirizzi, anche a quelli professionalizzanti;
- La partecipazione studentesca, delle famiglie e delle autonomie locali al governo della scuola.
Giovani e meno giovani insegnanti che il ’68 lo avevano vissuto, genitori e studenti che cercavano una scuola meno autoritaria, accettano la sfida e danno il via a un periodo di ‘sperimentazione’. Maxi o mini-sperimentazioni, per più di un decennio idee nuove hanno circolato nella scuola italiana: licei sperimentali, ma anche tempo pieno alle elementari, scuole dell’infanzia divenute famose a livello mondiale, istituti universitari che si occupano di didattica, che offrono borse di studio per la didattica e laboratori per insegnanti.
Per la scuola secondaria la sfida non è solo strutturale, ma culturale: quale cultura in una scuola unitaria aperta al presente? Riprendendo di nuovo quanto scritto allora: «Quale sia questa cultura «alternativa» di cui gli studenti parlano, non è facile dire; tuttavia ci sembra che essa vada Identificata in una capacità di comprensione del presente in vista di scelte da compiersi per l’avvenire; mentre invece la cultura tradizionale potrebbe essere definita come consapevolezza delle conoscenze accumulate nel passato, che indubbiamente servono alla comprensione del presente, ma che sono studiate piuttosto come un valore in sé. Questa distinzione si traduce, sul piano didattico, nello studio dei problemi anziché delle materie, per cui la matematica invece di essere una tecnica per l’acquisizione delle nozioni, diventa una metodologia della ricerca, dove «la scelta del problemi e il modo di studiarli sono essi stessi ipotesi da verificare e non fatti acquisiti» (E. Gelpi, Scuola senza cattedra, Milano 1969, p. 40 in Reguzzoni, Scuola Secondaria, Settembre-Ottobre, 1970)
Tutto questo diventa motivo e sostanza nella scuola sperimentale e, come proposto dalla Commissione Biasini nel 1972, nel LUS si sperimenta una scuola ‘comprensiva’: una scuola cioè con «struttura unitaria, articolata al suo interno in materie comuni, opzionali ed elettive, e completamente estranea a finalità professionali». Ma a questi obiettivi il LUS aggiunge una richiesta di libertà, e al tempo stesso di democrazia, propria di quel periodo, e una volontà di provare a fare le cose per capirle, e a farle e capirle assieme. Non si possono rinnovare solo le materie: anche l’organizzazione deve cambiare, il modo di studiare (libri di testo o ‘libri’? O anche esperimenti, azioni, performance?). Deve cambiare il modo di valutare: se la valutazione deve essere formativa, è lo studente che deve imparare a valutarsi, tenendo conto dei feedbacks, degli elementi di realtà che l’insegnante, ma anche i suoi compagni, gli mettono davanti.
L’utopia accompagnava l’ansia di innovazione e la sperimentazione attenta ai fatti. Il LUS, ma anche altre scuole sperimentali in quel tempo, erano un esempio di quelle learning organizations, organizzazioni che apprendono, e continuano a domandarsi come migliorare, che nel convegno dell’OCSE a Poitiers nel 2003, sono state indicate come «uno degli scenari di sviluppo futuro della scuola».
La resilienza vince la perturbazioneI tempi cambiano, i decreti delegati hanno riportato ‘ordine’ alla partecipazione di studenti e genitori alla vita della scuola, le sperimentazioni troppo avventurose sono state chiuse rapidamente (ma senza ammetterlo pubblicamente: il LUS fu chiuso per inagibilità dell’edificio), altre successivamente, e la scuola nata dal ’68, che stava cominciando a mettere in discussione culture e privilegi, non ha resistito alla resilienza del sistema.
Ma non è l’unico cambiamento sul quale la resilienza del sistema ha avuto la meglio (e per sistema si intende non solo l’organizzazione istituzionale, ma anche i sindacati, i genitori, buona parte degli insegnanti stessi, gli ‘intellettuali’, che senza essersi mai occupati attivamente di scuola pontificano sul suo fallimento). Pensiamo al tempo pieno nella scuola dell’obbligo, spesso rimasto come numero di ore ma non come metodologia di lavoro collaborativo, ai laboratori scientifici spesso non utilizzati anche se presenti, e soprattutto alla formazione universitaria degli insegnanti (uno dei 10 punti di Frascati) scambiata per il possesso di una laurea e di qualche credito formativo in materie pedagogiche. Come se per insegnare fosse sufficiente semplicemente conoscere la materia, o saper citare qualche pedagogista. Se si vuole combattere la resilienza, i cambiamenti devono essere essi stessi ‘resilienti’, compresi dagli addetti ai lavori, supportati per un tempo sufficientemente lungo, condivisi con chi dovrà viverli sulla propria pelle…. in pratica, una rivoluzione.
Michela Mayer